Era meglio l’originale. Quante volte si tende a pronunciare questa frase? Spesso succede con i film. Parliamo di titoli. Oggi più che mai, con i gusti del pubblico in continua evoluzione e una crescente tendenza a guardare film e serie TV in lingua originale, ci si imbatte sempre più spesso nel titolo originale di un’opera.
È bene chiarirlo subito: non esiste una scelta giusta o sbagliata tra versione originale e doppiaggio, è semplicemente una questione di preferenze personali. La traduzione dei titoli, tuttavia, resta una pratica comune, e avviene per diversi motivi. Dietro questa scelta ci sono spesso strategie commerciali pensate per adattare il film o la serie ai gusti e alla sensibilità del pubblico italiano. Di seguito alcuni esempi.
Se mi lasci ti cancello (2004)
Il film di Michel Gondry con Jim Carrey e Kate Winslet rientra tra i casi più eclatanti. Eternal Sunshine of the Spotless Mind era il titolo originale, ovvero Eterno splendore della mente candida. Si tratta di un verso del poema epistolare Eloisa to Abelard (1717) del poeta inglese Alexander Pope. La distribuzione italiana ha deciso di optare invece per Se mi lasci ti cancello. Molti spettatori probabilmente si aspettavano infatti una commedia sentimentale, finendo per imbattersi invece in una pellicola drammatica e soprattutto malinconica. Rimane comunque uno dei più grande cult degli ultimi vent’anni, vincitore dell’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, firmata dal grande Charlie Kaufman.
L’attimo fuggente (1989)
L’attimo fuggente è sicuramente un buon titolo. L’originale era però Dead Poets Society, ovvero La setta dei poeti estinti. L’Italia ha preferito agganciarsi al discorso del carpe diem tenuto dal Professor Keating (Robin Williams), ancora oggi fortemente riconducibile al film. È difficile incasellare una pellicola così importante, che nel guardarla ancora oggi emoziona (e non poco). Si parla molto dell’importanza del pensiero critico, di saper seguire la propria strada, di scontri generazionali, temi che a più di trent’anni di distanza sono ancora centrali nella vita dei ragazzi (e non solo). Se ancora non siete andati ad ascoltare le parole del prof. Keating, correte ai ripari: oltre a una delle più grandi lezioni di sempre, vi imbatterete in una delle migliori interpretazioni del compianto Robin Williams.
Trappola di cristallo (1988)
Un titolo che evoca l’ambientazione di uno degli action movie più significativi della storia del cinema. Ma cosa dire sull’originale Die Hard, letteralmente Duro a morire, che darà il nome a tutta la saga con Bruce Willis. Sembrerebbe poi che nella campagna pubblicitaria a ridosso dell’uscita il film fosse stato pubblicizzato come A un passo dall’inferno (Trappola di cristallo). Probabilmente l’intenzione era quella di richiamarsi a L’inferno di cristallo (1974), cui il regista ha dedicato diversi omaggi all’interno della pellicola. Nel film di John McTiernan il poliziotto John McClane (Willis) si ritrova infatti nel grattacielo in cui lavora la moglie, improvvisamente preso d’assalto da un gruppo di terroristi capeggiato da Hans Gruber (Alan Rickman). Un mix di scene adrenaliniche, con un protagonista in cui è facile immedesimarsi, che anche quando si trasforma in un eroe d’azione costretto a salvare la situazione non viene percepito così distante da noi spettatori. Considerata la sua ambientazione, oltretutto si è trasformato in un cult da vedere e rivedere in occasione delle festività natalizie.
(500) Giorni Insieme (2009)
(500) Days of Summer era il titolo originale del film di Marc Webb. Un gioco di parole tra il nome della protagonista Summer, interpretata da Zooey Deschanel, e la stagione in cui si svolge parte della trama. Nella versione italiana il nome del personaggio è stato tradotto con Sole, e di conseguenza si è optato per (500) Giorni insieme (2009), mettendo così da parte l’allusione al contenuto della pellicola. Se state cercando una rom-com non convenzionale, è una visione indispensabile. Sfruttando l’alternanza temporale nell’arco dei 500 giorni di relazione tra Tom (Joseph Gordon Levitt) e Sole (Deschanel), offre degli ottimi spunti per riflettere su l'altra faccia dell’amore, quella non idealizzata dall’immaginario collettivo. Un film consigliato soprattutto a chi non sta passando un buon periodo proprio a causa di una rottura sentimentale.
Lost in Translation – L’amore tradotto (2003)
L’opera seconda di Sofia Coppola è una conferma. Una conferma del talento di una regista che stavolta mette in scena una storia d’amore ambientata a Tokyo, tra solitudine e incomunicabilità. Il risultato è una deliziosa commedia sentimentale con Bill Murray e Scarlett Johansson, Lost in Translation, letteralmente “perso nella traduzione”. L’aggiunta de L’amore tradotto non arricchisce una pellicola che poteva tranquillamente uscire nelle sale con il suo titolo originale. Il lavoro di Coppola è molto introspettivo, un film volutamente “silenzioso” che parla di due anime smarrite in un contesto così lontano, che però allo stesso tempo sono due persone che si trovano nel posto giusto al momento giusto. Personalmente, ho trovato delle similitudini con In the Mood for Love (2000) di Wong Kar-wai, ambientato nella Hong Kong degli anni Sessanta.
Il petroliere (2007)
In originale There will be blood, ovvero Ci sarà sangue. La traduzione italiana del titolo del film di Paul Thomas Anderson è più fedele al libro da cui è tratto, Oil! di Upton Sinclair. Fu lo stesso regista a raccontare di aver voluto cambiare personalmente il titolo in quanto la sua opera era solo parzialmente ispirata al lavoro di Sinclair. Il Petroliere (2007) è un film monumentale, che parla di capitalismo, di religione, che si avvale della fortunata collaborazione tra Anderson e di Daniel Day- Lewis, che per la sua straordinaria interpretazione in grado di scavare a fondo nell’animo del protagonista Daniel Plainview è riuscito a vincere il secondo Oscar. Forse basterebbe la sola curiosità di guardare il lavoro di questo artista sul personaggio per spingere ad avvicinarsi a un’esperienza cinematografica decisamente significativa.
La parola ai giurati (1957)
Il titolo originale dell’opera prima di Sidney Lumet è 12 angry men, ovvero 12 uomini arrabbiati. Un dramma giudiziario che segue dodici componenti di una giuria popolare alle prese con la decisione della sorte di un diciottenne accusato di aver ucciso il padre. La distribuzione italiana decise di far uscire il film con La parola ai giurati (1957), eliminando in primis il riferimento al numero dei giurati in quanto probabilmente poco comprensibile al pubblico nostrano. È una visione consigliata non solo agli studiosi di diritto, ma a una platea ampia per un semplice motivo: la maestria di Lumet di rendere avvincente un film di solo dialogo ambientato in un’unica stanza. Una storia e soprattutto un modo di raccontare che a quasi settant’anni di distanza rendono questo film ancora fortemente contemporaneo.
Mamma, ho perso l’aereo (1990)
Il titolo originale del film era “Home alone”, ovvero "A casa da solo”. Diversi paesi si sono distaccati dalla versione statunitense e l’adozione di Mamma, ho perso l’aereo (1990) si avvicina a quella dei colleghi francesi (Maman, j’ai raté l’avion!). Sicuramente ha funzionato e la pellicola di Chris Colombus ancora oggi è vista e rivista. Tant’è che due anni dopo uscì un sequel che fu proprio intitolato Mamma, ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York (1992). Come Die Hard - Trappola di cristallo (1988), siamo di fronte a un altro cult natalizio, con cui molti di noi sono cresciuti. Un appuntamento fisso della fine dell’anno, trasversale, per grandi e piccini, in cui continuiamo a seguire le avventure di Kevin McCallister (Macaulay Culkin), quel bimbo di otto anni lasciato a casa da solo, e che nel progettare delle trappole per difendersi dai ladri si ritrova improvvisamente nei panni di un adulto. Un film meno semplice di quello che si pensi, con al suo interno una parabola sulla crescita, raccontata con leggerezza.
Ombre rosse (1939)
Il western più famoso della storia del cinema. Il titolo originale del film di John Ford era Stagecoach, ovvero Diligenza. Si racconta che quando Federico Fellini incontrò Ford finì per complimentarsi con lui, citando la traduzione inglese del titolo italiano, ovvero Red Shadows. Chiaramente, il regista non capì di quale pellicola stesse parlando. Ombre rosse (1939) è consigliato soprattutto agli amanti del western, ma anche a chi volesse avvicinarsi a un genere cinematografico così importante. È fondamentale per chi fosse interessato a conoscere John Ford, tra i cineasti più significativi mai conosciuti, che nel corso delle riprese del film introdusse delle vere e proprie innovazioni nel campo della regia (come l’automobile che affiancò la diligenza a 60 km/h per riprendere la scena dell’assalto degli indiani).
Quarto Potere (1941)
Citizen Kane è il titolo originale del capolavoro di Orson Welles. Proprio come il protagonista, Charles Foster Kane. Con Quarto potere si fa invece riferimento alla funzione dei mezzi di comunicazione di massa, proprio il quarto dopo quello legislativo, esecutivo e giudiziario. È un film fondamentale, presente in qualsiasi manuale di storia del cinema. L’ho saputo apprezzare davvero quando mi fu mostrato al primo anno di università ai fini della preparazione di un esame, e dunque il mio consiglio è di vederlo più volte, intervallando la lettura di approfondimenti. Esiste anche un film di David Fincher, Mank (2020), che affronta la questione della paternità della sceneggiatura di Quarto Potere, scritta da Herman J. Mankiewicz e dallo stesso Welles.